Licenziamento per infermiera che si rifiuta di effettuare mansioni di pulizia
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Corte di Cassazione Sezione Lavoro - Sentenza 11 febbraio – 5 maggio 2016, n. 9060
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Catanzaro rigettava con sentenza dell’11.6.2010 la domanda proposta da A.G. di dichiarare, previo accertamento dell’ingiusto demansionamento subito, l’illegittimità dei licenziamento per giustificato motivo soggettivo da parte dei datore di lavoro Casa di cure Villa dei Sole srl per aver opposto il proprio rifiuto allo svolgimento delle mansioni di pulizia delle scale e dei reparti, reputate inferiori rispetto alle mansioni del profilo di inquadramento.
La Corte di appello di Catanzaro con sentenza dei 3.9.2012 rigettava l’appello della lavoratrice; la Corte territoriale osservava che era pacifico che nell’anno 1998 era stata attribuita alla lavoratrice il livello V dei CCNL ed In data 8 maggio 2001 la posizione B dei CCNL, con la corresponsione dell’indennità professionale che dalla busta paga risulta corrisposta come ” indennità professionale infermiere generica, sala operatoria, presenza su due turni”. Ora pur essendo stata attribuita la posizione B2 ( il cui mansionario veniva ricostruito in sentenza) i testi avevano riferito che comunque l’appellante era stata inserita nel turni degli ausiliari e pertanto si doveva ritenere che, pur essendo stata attribuita la qualifica di “infermiera”, )’A. non aveva svolto le relative mansioni ma invece un’attività riconducibile alla posizione A2 attività esecutive di natura tecnico- manuale nell’ambito della quale figurano anche mansioni di pulizia) come emergeva dalle dichiarazioni dei testi che avevano visto la A. provvedere nel settore cui era stata assegnata alle attività di pulizia delle apparecchiature, degli strumenti e degli ambienti; peraltro il diploma posseduto dalla A. non soddisfaceva i requisiti richiesti per l’assegnazione della Categoria B. Emergeva ancora una differenza tra le mansioni proprie della posizione A/Al e A2 riconducibile al fatto che per la prima l’attività di pulizia poteva essere richiesta In ogni ambiente, mentre la prima solo ai locali interessati dalla operazioni; era emerso che la Direzione aveva richiesto alla lavoratrice di effettuare in via esclusiva le mansioni di pulizia in varie parti della struttura sanitaria, senza così la possibilità dl effettuare le altre mansioni ( di assistenza al personale infermieristico nel reparti) e che la stessa aveva opposto un netto rifiuto dando così origine a numerosi provvedimenti disciplinari ed alla fine alla sanzione espulsiva. Alla luce della giurisprudenza di legittimità tale rifiuto era ingiustificato anche in relazione al fatto che la categoria B era stata attribuita solo a fini economici e che di fatto la A. aveva svolto comunque mansioni di pulizia (anche prima dell’ordine di servizio rifiutato) essendo stata inserita nei turni degli ausiliari come da lei stessa ammesso: peraltro il rifiuto era stato totale. La A. poteva certamente contestare l’esercizio dello ius variandi ma non unilateralmente opporsi allo svolgimento della prestazione richiesta.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la A. con due motivi; resiste controparte con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione o falsa applicazione di norme e principi di diritto (artt. 112 e 2103 c.c.) e dei contratti collettivi nazionali di lavoro. L’art. 2103 c.c. tutela un diritto inderogabile alla tutela della professionalità dei lavoratore che limita lo ius variandi del datore di lavoro. La A. era inquadrata in B2 e doveva essere adibita a mansioni compatibili con tale declaratoria. non essendo accettabile la tesi della Casa di cura per cui sarebbe scindibili trattamento retributivo e mansioni svolte.
Il motivo appare infondato. Come già ben chiarito nella motivazione della sentenza impugnata thema decidendum non è l’accertamento se il pacificamente spettante inquadramento in B2 dell’attuale ricorrente fosse compatibile con l’affidamento delle mansioni di pulizia di vari reparti e locali della Casa di cura come da ultimo richiesto alla lavoratrice, ma il diverso accertamento se le mansioni richieste comportassero un vulnus così grave ed irreparabile alla professionalità della lavoratrice da legittimare il suo rifiuto a svolgere la prestazione senza neppure poter aspettare un accertamento giudiziario. La Corte di appello ha infatti esplicitamente fatto salvo il diritto della lavoratrice ad impugnare l’ordine di servizio ma ha escluso che un danno così grave alla professionalità potesse derivare dalla semplice richiesta di svolgere attività di pulizia (con privazione delle mansioni in precedenza affidatole In aggiunta a quelle di pulizia) visto che la lavoratrice già svolgeva un’attività consimile essendo stata inclusa nei relativi turni di servizio ed essendo emerso in base alle dichiarazioni dei testi che la declaratoria 132 era stata riconosciuta In sostanza a soli fini economici. La soluzione motivazionale adottata dalla Corte di appello appare quindi coerente con la giurisprudenza di questa Corte abbondantemente riportata a pag. 14 che viene ignorata al motivo che argomenta come se si trattasse dì una ordinaria causa di demansionamento ex art. 2103 c.c. SI tratta peraltro di una giurisprudenza consolidata ribadita anche con la recente decisione n. 126961 2012 secondo la quale ” il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione dei lavoro impartite dall’imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi alla stregua dei principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 cod. civ. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l’inadempimento di quest’ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali dei lavoratore medesimo” l’esistenza di un inadempimento così grave da incidere su “esigenze vitali del lavoratore” è stata dalla Corte territoriale esclusa con motivazione congrua e logicamente coerente ed ancorata a dati obiettivamente emergenti dagli atti processuali.
Con il secondo motivo si allega la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ( art. 1460 c.c. L. n. 604/66 e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Il rifiuto di svolgere la prestazione richiesta era motivato perché privava la lavoratrice delle mansioni in precedenza assegnate coerenti con la propria qualifica. Stante questa privazione era legittimo il ricorso al principio di autotutela ex art. 1460 c.c.
II motivo appare infondato per le ragioni già evidenziate: la Corte di appello ha congruamente motivato in ordine alle ragioni per cui la nuova assegnazione di mansioni non concretava un pericolo di danno così grave ed irreversibile alla professionalità della lavoratrice (che già svolgeva attività di pulizia rispetto alla quale non è neppure chiarito nel ricorso se le altre mansioni dedotte nel motivo avessero o meno carattere di prevalenza) tale da legittimare il ricorso al principio di autototutela (che nel nostro ordinamento ha carattere eccezionale) con il rifiuto di svolgere l’attività richiesta. In questa sede non si discute dell’eventuale demansionamento della lavoratrice, ma solo se tale demansionamento (questione che poteva essere avanzata nelle opportuni sede giudiziarie) avesse quelle caratteristiche dirompenti prima ricordate incompatibili con il tempo di un accertamento giudiziario. La censura , a ben guardare, è di merito, diretta ad una rivalutazione dei fatto, come tale inammissibile in questa sede.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese del giudizio di legittimità, liquidato come al dispositivo, seguono la soccombenza.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater dei d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese dei giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 3.500,00 per compensi e accessori di legge nella misura del 15%. La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater dei d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente in via principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per Il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.